Azionista, manager e imprenditore: la continuità aziendale si salva così

Azionista, manager e imprenditore: la continuità aziendale si salva così

di Pierluigi Bocchini*
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Martedì 26 Marzo 2024, 01:05

Caro Direttore,

ho letto con interesse il dibattito sul suo giornale riguardo le aziende marchigiane sempre più prede di grandi multinazionali straniere. Come rilevato da alcuni, le cause sono molteplici. Mi permetto di segnalare due temi cruciali: la crescita, che passa attraverso la managerializzazione delle società, la possibilità di investire e, fondamentale, la cultura imprenditoriale. Poi il contesto nel quale le imprese operano, che incide in modo determinante sulla loro competitività. Alcuni giorni or sono, dopo alcuni rinvii, ho ricevuto la visita in azienda di un importante investitore milanese. Solo la sua cortesia e sensibilità lo hanno inibito dal confessare che il protrarsi dell’incontro è stato probabilmente conseguenza del fatto che per visitare Clabo (Jesi, Ancona, Marche) nel 2024, partendo da Milano devi mettere in agenda un’intera giornata.

I treni Frecciarossa, come ammettono off records gli stessi dirigenti di Trenitalia, hanno un ritardo strutturale rispetto agli orari ufficiali di 15/30 minuti, perché debbono rispettare degli slot di precedenza. Risultato: spesso si impiegano 4 ore, come accaduto al mio ospite. Con l’Alta Velocità sull’Adriatico andremmo a Milano da Ancona in due ore. Sui collegamenti aerei stendiamo un pietoso velo: la probabilità che il volo da Linate parta (evento non affatto scontato) ed arrivi puntuale è più o meno la stessa di quella di infilare il 6 al superenalotto tre volte consecutivamente. In auto, gli oltre 400 chilometri che ci separano dal capoluogo lombardo si riescono difficilmente a percorrere in meno di quattro ore senza considerare code, stanchezza alla guida e i probabili blocchi del casello di Ancona Nord ai quali andremo incontro a partire da marzo 2025 con l’entrata a regime del Hub di Amazon. Un territorio isolato perde di attrattività.

La perde nei confronti dei potenziali clienti delle nostre imprese, ma anche nei confronti dei giovani talenti che preferiscono andare a lavorare altrove piuttosto che nella nostra regione. Le aziende crescono se trovano nuovi clienti e se migliorano il livello delle competenze e la qualità delle risorse umane. Un’impresa che non cresce è destinata prima o poi a chiudere o ad essere acquisita da altre più grandi, è la legge del mercato. Ma le imprese non crescono anche a causa del legame alla tradizione di molti nostri imprenditori, bravissimi a creare e far crescere la propria attività, meno nel garantirne la continuità generazionale. Azionista, manager ed imprenditore: questo è il paradigma alla base della continuità dell’impresa. L’azionista detiene una quota del capitale di un’azienda ma non ne determina le scelte gestionali.

Il manager ha ruoli gestionali ma, normalmente, non ha quote del capitale e viene scelto da chi rappresenta gli azionisti. Poi c’è l’imprenditore, ovvero colui che in virtù delle quote di capitale che, direttamente o indirettamente, controlla ha in mano la governance dell’impresa. Proprietà e gestione coincidono.

Spesso sentiamo parlare di family business. Poco tempo fa ho partecipato ad un interessante evento nel quale emergeva con forza l’idea che sia un dovere per l’imprenditore educare i propri figli - quantomeno alcuni di loro - affinché un giorno possano prendere il loro posto in azienda. Io credo che il dovere di un genitore, prima ancora che dell’imprenditore, sia assecondare le attitudini dei figli, per il bene loro e dell’impresa di famiglia. Semmai l’educazione da impartire dovrebbe essere finalizzata a far comprendere ai propri figli che molto probabilmente diverranno azionisti, forse dei bravi manager, molto difficilmente dei bravi imprenditori. Un bravo azionista sa capire quando all’interno della famiglia c’è un bravo manager ed in quel caso, ma solo in quel caso, dovrebbe facilitare il suo percorso imprenditoriale.

Nella consapevolezza che il legame familiare può facilitare i rapporti tra azionisti e manager ma li può anche complicare, come insegna la storia di molte grandi dinastie industriali. Un azionista avveduto deve avere come primo obiettivo la massimizzazione del valore del proprio patrimonio, percorso che passa necessariamente per la valutazione di quale sia il migliore assetto azionario funzionale allo sviluppo dell’impresa, che spesso costituisce l’asset principale delle nostre famiglie imprenditoriali. Aprire il capitale a terzi investitori, managerializzare l’azienda e consentirle di entrare a far parte di gruppi industriali di maggiori dimensioni e più competitivi, pur al costo di perderne il controllo, sono a mio avviso scelte razionali e corrette. Non solo per il patrimonio della famiglia ma anche per il futuro delle nostre imprese e, di conseguenza, del nostro territorio. Fatta eccezione per le onlus, le imprese hanno l’obbligo di creare valore. Senza profitti sono destinate a sparire. Quando un soggetto investe in un’azienda del nostro territorio compie, come sempre, scelte razionali, funzionali alla generazione di valore. Mantenere un’impresa in un contesto che ne penalizza la competitività è una scelta irrazionale. Ed è la mancanza di razionalità che determina l’insuccesso delle imprese e dei loro azionisti.

* Presidente Confindustria Ancona

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